Sembra abbastanza logico che un insediamento urbano potesse trovare i presupposti per stabilirsi definitivamente nei pressi di un'arteria di comunicazione, su di un terreno fertile ed in una posizione strategica. Come punto nevralgico, il nostro territorio era situato in ottima posizione, a poche miglia dalla colonia romana di Cremona, a sufficente distanza dal fiume per evitare inondazioni e su un terreno fertile, in quanto a metà strada tra due corsi d'acqua: il Po e l'Oglio.
Non dobbiamo, poi, dimenticare una delle strade più importanti del nord: la via Postumia, fatta costruire dal console Spurio Postumio Albino nell'anno 148 a.C., probabilmente su una precedente pista. Inoltre, sono da tenere in debito conto le considerazioni di Pier Luigi Tozzi in "Storia Padana Antica", quando tratta dell'insediamento romano in Cremona (218 a.C.). Anche se ci sfugge la esatta suddivisione interna, una volta fissato il limite delle mura cittadine, abbiamo una figura geometrica di 480 e 520 metri circa di lato e un'area cittadina attorno ai 25 ha, sostanzialmente corrispondente a quella di Piacenza. Sul fondamento di questi dati è facile escludere immediatamente che 6000 famiglie (circa 24000 abitanti) potessero essere contenute in uno spazio così limitato. Più difficile è il calcolo esatto di quanti abitassero in Cremona.
Se suddividiamo gli isolati in abitazioni di un piano, fino al limite delle possibilità, e consideriamo che il 10% almeno dell'area cittadina fosse riservata a zone ed edifici pubblici, possiamo valutare in 2000 il massimo delle case private, sufficienti per 2000 famiglie, per un totale di 8000 abitanti. Ne deriva che la città non fu progettata per accogliere 6000 coloni e di fatto solo un terzo di essi poteva vivere abitualmente in città, mentre i due terzi vivevano nella campagna. Potrà apparire a tutta prima strano che nel 218, in un momento pieno di pericoli e di insicurezza, si pensasse a distriburie sul territorio la popolazione, ma, oltre al fatto che la situazione andò ben al di là delle previsioni dei Romani e per la rivolta gallica e per la invasione cartaginese, i coloni potevano in caso di difficoltà raccogliersi in città o in altri eventuali centri fortificati. D'altra parte i tempi gravi non durarono a lungo e almeno dal 190 si verificarono condizioni di vita normale.
Al contrario sarebbe veramente strano che ogni giorno col levare del sole i coloni dovessero allontanarsi dalla città per i lavori agricoli e vi rientrassero al tramonto, specialmente se consideriamo che molti possedevano le loro sortes a parecchie miglia (anche 10 o 15) da Cremona.
In questo senso testimoniano sia il principio che per i Romani una efficace difesa della regione dai Galli poteva realizzarsi solo con la distribuzione e la continua presenza della popolazione sul territorio, sia la vastità della primitiva centuriazione del cremonese. Tacito nella sua Historia parla di località dell'ager cremonese come Bedriacum (Calvatone), Acerrae (Pizzighettone), Vultarina (Gussola) e Castores, luogo sacro a 12 miglia da Cremona. Il basso cremonese dell'Impero Romano (70 d.C.) Senza nessun'altra documentazione, ma utilizzando la logica ed un pizzico di fantasia, possiamo ipotizzare il misterioso villaggio nella nostra zona, all'altezza della strada che da Ca' de' Varani si immette sulla via Postumia. Potrebbe trattarsi d'un lucus, cioé d'un bosco sacro dedicato a Castore e Polluce, protettori, fra l'altro, dei viandanti. Prova ne è che da queste parti, di tanto in tanto, gli aratri riportano in superficie reperti dell'esistenza di un villaggio.
Anticamente, in corrispondenza di questa strada esisteva un ponte sul canale Delmona che comunicava direttamente con Mottaiola, unico punto di transito del canale fin verso la metà del 1700. E per giustificare il "luogo sacro" bisogna affidarsi allo storico don Angelo Grandi, quando a proposito della tomba del vescovo Babila afferma che il prelato fu decapitato sulla via Postumia, nell'anno 94 sotto Domiziano ed il suo corpo sepolto in "Cavea VIII ab urbe lapide ad orientem, ubi saeculo VII Ecclesia Sancti Jacobi Apostoli edificata est". Suscita parecchie perplessità, però, il VII secolo, in quanto pur ammettendo l'esistenza di una chiesa in Pieve S. Giacomo a quel tempo, il tempio fu dedicato a S. Giacomo apostolo solo nell'XI secolo da Matilde di Canossa, signora molto devota al Santo.
Per chiarire le idee circa una definitiva collocazione del nostro paese, dobbiamo andare alla fine dell'impero d'occidente, legata all'ammutinamento di alcuni contingenti barbari (Eruli, Sciri, Rugi), stanziati in Italia, che pretendevano venisse esteso anche a loro il beneficio dell'HOSPITALITAS, secondo la formula per cui ogni proprietario romano era tenuto a mettere a disposizione del gruppo di soldati che si stabiliva su un determinato territorio un terzo delle case e la terza parte dei frutti della terra. Nella pianura padana si era insediata una colonia di Franchi favorita da un legame di parentela, infatti Teodorico sposò Audefleda, sorella di Clodoveo re dei Franchi.
Una frangia di questa colonia si stabilì sulle nostre terre, lo comprovano alcune parole dialettali di derivazione transalpina; e nel 876 costruiscono una chiesa dedicandola al monaco benedettino Zenone, vescovo di Cremona (703-733) e priore del monastero di S. Leonardo; stimato e venerato per le sue doti filantropiche dal nucleo di frati aggregati alla colonia francese. I benedettini rimasero in Pieve S. Giacomo fin verso la metà del 1600, prova ne è che sotto il pavimento della nostra chiesa furono trovate, nel 1963, tombe con i resti di due frati. Anche il Robolotti rafforza questa ipotesi quando afferma che le Pievi erano regolate da un collegio di canonici i quali, nel 1547, furono uniti da Papa Paolo III all'abbazia dei Lateranensi di Cremona, monastero di S. Pietro che apparteneva ai benedettini fino al 1439.
A reggere la nostra parrocchia il 21 giugno 1575 giunge l'abate Eusebio De Alia al quale successe padre Angelo Da Paderno dei canonici regolari lateranensi. Una svolta importante la diedero anche i longobardi, scesi in Italia nel 569 sotto la guida di Alboino, che si stabilirono per anni in lombardia, mutando profondamente l'aspetto geografico ed etico-politico della regione. Compaiono i termini FARA (podere, fondo rustico), GEHAGE (Gazzo) che potrebbero indicare un insediamento di questa popolazione.
Gianluigi Barni, studioso della famosa Historia Longobardorum di Paolo Diacono afferma che per i longobardi santi tipici furono S. Michele e S. Giorgio, entrambi rappresentati armati, e forse proprio per questa loro figura di combattenti graditi ad un popolo bellicoso. Quindi, se colleghiamo il nomignolo Gazzo con la chiesa dedicata a S. Michele, potremmo anche ipotizzare che la nostra frazione sia nata per mano dei Winnili. a cura di Dante Fazzi, Sindaco del Comune di Pieve San Giacomo dal 1993 al 2001